TESTIMONIANZA DI VITTORIO BLANDINO, COMANDANTE 113° BRIGATA GARIBALDI

 

"Mi è gradito e mi commuove ricordare agli amici dell’Associazione Russkij Mir di Torino il grande contributo dato dai sovietici alla lotta di Liberazione nel nostro Paese per sconfiggere quel mostro immondo che fu il nazi-fascismo.

Quelli che divennero i nostri indimenticabili compagni di lotta, i sovietici appunto, erano uomini fatti prigionieri in Russia dai Tedeschi, in gran parte erano georgiani, qualcuno anche di altre regioni. I tedeschi li adibivano a mansioni varie presso le stazioni ferroviarie della Valle di Susa. I più arditi e combattivi di loro fecero di tutto per cercare il contatto con le nostre formazioni; contattandoli fra mille rischi facilmente comprensibili, riuscimmo con tutte le dovute cautele a capire che la volontà di combattere tedeschi e fascisti era in loro molto sincera e forte. Io stesso, in prima persona, dopo dettagliati preparativi, riuscii a prelevarne alcune decine fra le varie stazioni ferroviarie e a condurli in montagna inserendoli nella nostra brigata, nonché nella 42° Brigata Garibaldi operante più in su nella vallata.

Erano decisi, coraggiosi, si inserirono magnificamente nelle nostre strutture militari. Raccontavano di quello che avevano passato di terribile in Unione Sovietica nella Grande Guerra Patriottica: le immani distruzioni, l’annientamento delle popolazioni da parte dei tedeschi, ligi all’ordine di Hitler di non fare prigionieri fra i sovietici, ma semplicemente di annientarli tutti, civili e militari. Basta ricordare che, degli oltre 50 milioni di caduti della Seconda Guerra Mondiale, quasi la metà (le cifre aggiornate parlano di circa 25 milioni) furono cittadini sovietici. I volti e, anche se non tutti ormai, i nomi di quelli che erano stati degli eroici combattenti che lottarono con noi per la liberazione del nostro Paese sono impressi nel mio cuore.

Ebbero modo di far veder il loro valore e il loro coraggio in battaglia, tanto che qualche volta, personalmente, fui anche costretto a richiamarli a una maggiore prudenza.

Di certo tutti noi li ammiravamo per il loro ardore, il non tirarsi mai indietro, nemmeno nelle situazioni più pericolose, l’offrirsi senza riserve come volontari quando accadeva di dover compiere azioni pericolosissime e non ci si poteva permettere di utilizzare uomini indecisi o comprensibilmente timorosi. L’amicizia e la fraternità divennero spontanee tra i nostri partigiani ed i sovietici.

Combatterono al limite delle loro forze, erano abilissimi cacciatori; la fame era tanta per tutti e quando riuscivano a catturare qualche pregiato animale di montagna, la prima cosa che facevano era quella di dividere, anche a costo di rimanere a stomaco vuoto, con i nostri partigiani italiani. Morirono anche con i nostri partigiani.

Tutti i sovietici della brigata parteciparono al gruppo formato da una cinquantina di uomini che portarono a segno la più grossa operazione di approvvigionamento di armi per tutte le formazioni della valle: quella compiuta all’aeronautica di Torino-Collegno nell’agosto del ’44. Mettemmo fuori uso tutti gli aeroplani da guerra ivi presenti e portammo in montagna oltre 240 mitragliatrici pesanti e centinaia di migliaia di colpi di munizioni. Radio Londra elogiò più volte il formidabile colpo all’Aeritalia e citò anche la partecipazione dei partigiani sovietici."

 

Testimonianza resa nel 2005, estratta dal documentario

"Ruka ob Ruku - Partigiani sovietici nella Resistenza piemontese"

a cura di Antonello Rizzo 


Dove abitava e che lavoro faceva prima che iniziasse l’Assedio?

Sono nata in Ucraina. Nel 1939, quando avevo 17 anni, sono venuta a Leningrado per studiare e lavorare, da uno zio che aveva lasciato l’Ucraina prima di me. Ho trovato un lavoro da cameriera in una famiglia benestante e ho cominciato a vivere con loro, mi hanno trovato lavoro in una fabbrica di mobili e hanno sempre cercato di aiutarmi in tutti i modi. Nel 1940 è iniziata la guerra con la Finlandia, volevo andare via da Leningrado, mio zio mi trovò anche i soldi per il viaggio, ma era già troppo tardi. E nel '41 cominciò la Grande Guerra Patriottica.

Durante l’Assedio rimase all’interno della città? Fu mobilitata anche lei per la difesa?

Nell'autunno del '41 cominciarono a mobilitare per la difesa in diverse parti della provincia di Leningrado (Kingisepp, Šuvalov, Dubiny), dove capitava di abitare per mesi. Le donne e gli uomini rimasti a lavorare nelle fabbriche scavavano fossati, fossi anticarro. A partire dall’aprile del '42 hanno cominciato a mandarci all’estrazione della torba che serviva alla centrale elettrica per procurare energia per la città. Lavoravamo 14-15 ore al giorno, e con le tessere annonarie per i lavoratori ricevevamo a testa 250 grammi di pane al giorno e una bottiglia di vodka che scambiavamo con i soldati con la farina. A casa (alle Narvkie vorota) tornavamo a piedi sotto i bombardamenti: i trasporti non funzionavano più. In città continuavo a lavorare alla stessa fabbrica di mobili, che si era messa a produrre materassi per i soldati, cuscini per il fronte, scatole per le mine.

Che ricordo ha dell’inverno del 1941-1942?

L'inverno fu freddissimo, si arrivava a -30°/-40°. Ai lavori per la difesa la gente moriva congelata: se si sdraiavano un po' per riposarsi, si addormentavano e morivano. In città si usavano le slitte per portare i malati all’ospedale Troickij e i morti al cimitero. Si tenevano aperte le porte negli appartamenti: passavano le brigate speciali per controllare se non ci fossero dei morti. Ci riscaldavamo come potevamo, bruciavamo mobili e libri. L’acqua non c’era, si andava alla Neva, facevamo i buchi nel fiume ghiacciato per procurarci l’acqua. Di pane ce n'era poco, ci toccava prepararci in fabbrica una zuppa con la colla da falegname.

Ha visto morire tante persone?

Si vedevano morti e malati dappertutto: molti morivano sotto i bombardamenti, ma la maggior parte, credo, moriva semplicemente di fame sia in città che ai lavori per la difesa.

Qual è stato il suo pensiero ricorrente durante i 900 giorni dell’Assedio?

Il pensiero principale durante l’Assedio era il pane. Ai lavoratori all'inizio si davano 250 grammi di pane a testa al giorno, ai non lavoratori 25 grammi, ma la quantità diminuiva costantemente. Per sopravvivere, bisognava saper dividere il pane, affinché bastasse per tutto il giorno: colazione, pranzo, cena. Chi non ci riusciva, e mangiava tutto subito, moriva presto. D’estate, oltre al pane, mangiavamo erbe selvatiche e bacche, ma non si poteva andare a raccogliere niente nei boschi, perché erano zone militari. Con un'erba selvatica si faceva la farina che si usava per preparare le focacce o le minestre. I bombardamenti provocarono incendi ai depositi di zucchero Babaevskie, non rimase più nulla, ma la gente veniva lì e succhiava la terra che aveva assorbito lo zucchero.

Dalla disperazione, al suono dell’allarme non si correva più al rifugio, alcuni dicevano: "Succeda quel che succeda!".

Dalla liberazione aspettavamo una cosa sola: che aggiungessero del pane.

Non avevate pensieri di resa, affinché tutto finisse presto?

No, non avevamo mai di questi pensieri. Al contrario, eravamo sempre sicuri che avremmo vinto: noi avevamo ragione, difendevamo semplicemente la nostra patria. Non si poteva arrendersi al nemico in nessun caso.

Cosa ricorda del giorno in cui fu tolto l'Assedio?

Non mi ricordo troppo bene del giorno stesso, perché in ogni caso la guerra continuava ancora. Aggiunsero un po’ di pane, ma le tessere rimasero anche nel dopoguerra. Ma mi ricordo bene che tutti gli avvenimenti importanti erano annunciati per radio: l’allarme, quanto pane si dava quel giorno, la situazione al fronte e la liberazione. Era l’unico legame col mondo, mi ricordo bene la voce dello speaker che lavorò a Leningrado tutto il tempo della guerra: si chiamava Levitan. La sua voce e il suono dell’allarme anche adesso li sento nelle orecchie (avvicina le mani alla testa e chiude le orecchie), come se fosse ieri.

 

Intervista di Antonello Rizzo, con la collaborazione di Natal'ja Samulevič, nipote della sopravvissuta - San Pietroburgo, gennaio 2009
a NADEŽDA GRIGOR'EVNA PIŠČUGINA (decorata nel 1943 per la difesa della città)

VOLGOGRAD, LA CITTÀ GEMELLA DIMENTICATA DI TORINO

di Natalia Samulevic


"Purtroppo, negli ultimi anni non c’è più quel legame che c’era prima. Adesso non si fanno più scambi di delegazioni tra queste due Città gemellate, ma si vorrebbe credere che nessuna disgrazia e nessun guaio potranno rompere la nostra amicizia, ci uniscono così tante cose!" 
– questo si dice con rammarico nella brochure pubblicata a Volgograd (l’ex Stalingrado) negli anni ‘80 e dedicata al gemellaggio con Torino. La profezia, purtroppo, era destinata ad avverarsi. Secondo fonti archivistiche (l’Archivio storico di Torino, l’Archivio dell’Amministrazione di Volgograd) e testimonianze dirette (tra cui quella di Diego Novelli, già sindaco di Torino negli anni 1975-1985), i rapporti tra le due città cominciarono negli anni ‘60, si intensificarono nei successivi due decenni ai quali risale la firma del Patto di gemellaggio (1974) e si annullarono negli anni ’90 dello scorso secolo. Adesso, a livello ufficiale, non si mantengono più contatti tra le due città, non si fanno scambi di delegazioni, non si ideano progetti comuni, non si sviluppano rapporti di amicizia. Secondo le parole di Viktor Grabarov, Direttore dell'Ufficio relazioni internazionali del Comune di Volgograd, pare che neanche le lettere ufficiali di auguri inviate dal Comune di Volgograd negli ultimi anni al Comune di Torino in occasione delle festività abbiano avuto risposta. Al momento attuale sul sito Internet del Comune di Torino alla pagina dell'Ufficio Relazioni Internazionali non è menzionato il gemellaggio, e anzi si sostiene addirittura che non esista!

Non sembra possibile, però, spiegare questa situazione con una semplice indifferenza del Comune di Torino per la pratica di gemellaggi che, secondo l’opinione di alcuni, non è più di moda. Da un lato, lo contraddice palesemente il fatto che proprio negli ultimi dieci anni sono stati stipulati patti di gemellaggio sia con città europee che extraeuropee: Glasgow (Gran Bretagna, 2001), Campo Grande (Brasile, 2002), Salt Lake City (USA, 2006), Quetzaltenango (Guatemala, 1997), Nagoya (Giappone, 2005), Detroit (USA, 1998). Da un altro lato, non ci si dimentica dei gemellaggi storici: nel 2008 è stato celebrato il Cinquantenario del Gemellaggio plurimo fra sei paesi fondatori della Comunità Economica Europea con un ricco calendario di iniziative in ciascuna delle sei città , tra cui Torino.

Può darsi che i nuovi valori della politica cittadina di Torino non corrispondano più alle vecchie tradizioni storiche su cui si basava, appunto, il gemellaggio con Volgograd/Stalingrado: mantenere i rapporti di amicizia per rafforzare la pace nel mondo. Comunque sia, neanche questa versione risulta convincente, dato il gemellaggio di Torino con la città palestinese Gaza (1993) e quella israeliana Haifa (1993) per la "promozione della pace", o il relativo accordo con Quetzaltenango (Guatemala) "finalizzato al consolidamento della pace ed al rafforzamento delle istituzioni locali e della democrazia".

A questo punto, dovremmo porci una domanda abbastanza logica: "Come è possibile che il gemellaggio storico con la città russa, simbolo della vittoria sul fascismo ed apogeo della lotta per la pace, sia stato "cancellato" dalla memoria di Torino ed i rapporti così intensi ancora 30 anni fa (nel 1977 la settimana di Torino a Volgograd e nel 1979 le giornate di Volgograd a Torino con manifestazioni stupende secondo i ricordi dei partecipanti) siano stati completamente dimenticati dalla comunità torinese ufficiale mentre rimangono vivi nei ricordi dei partecipanti e protagonisti?"

L’unica risposta, per quanto banale e prosaica possa sembrare, è che il mondo intero è cambiato, di conseguenza anche il contesto di questo gemellaggio. Come abbiamo scoperto basandoci sulle testimonianze delle persone legate ai rapporti Torino-Volgograd e sulla logica documentale, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, proprio con l’inizio della perestrojka, non ci furono più contatti intensi tra le due città, poi, negli anni ‘90, dopo il dissolvimento dello stato sovietico, quasi non si praticarono più scambi di delegazioni, fino ad arrivare ai nostri giorni ed al silenzio completo. È per questo, può darsi, che attualmente questo gemellaggio non si ritiene più un’iniziativa prestigiosa, in quanto si vuole dare più rilievo al suo passato sovietico, espresso palesemente nel suo ex nome Stalingrado, che ad un passato comune più significativo per tutta l’Europa, quello della lotta per la pace.

Queste idee sono abbastanza diffuse in Europa ed anche nella società italiana. Basti citare l’opinione espressa dal giornalista Pierluigi Battista sulle pagine di "TorinoSette" (n.766 del 2004) a proposito di un’iniziativa dedicata alla battaglia di Stalingrado e promossa dall’associazione Russkij Mir. Il giornalista sostenne che il "mito" di Stalingrado non può più impedire lo sguardo sulla realtà effettuale: "…non si può più ignorare сhe per una parte importante dell’Europa … Stalingrado non ha cancellato il nome di Stalin e сhe l’esito di quella battaglia ha rappresentato soltanto il tragico passaggio da un dispotismo a un altro…". Evidentemente la personificazione della città con il nome di Stalin può avvenire a volte anche nella mente di persone colte ed istruite. Comunque sia, l’Associazione Russkij Mir nel numero successivo del giornale replicò così al giornalista: "Dati storici alla mano, l’esito di quella battaglia ha rappresentato per tutta l’Europa, e per il mondo, la sconfitta del nazismo e delle sue scellerate teorie sulla supremazia della razza ariana".

Bisogna sottolineare, però, che le persone colte, esperte della vita, delle relazioni con altra gente, altri popoli ed altre culture dovrebbero essere consapevoli di una regola universale: non si può condannare i figli per gli errori dei padri, i popoli per gli errori dei governatori, i paesi per gli errori dei governi. Ma soprattutto non si dovrebbe confondere l’essenza e l’apparenza. Il nome di Stalingrado andrebbe considerato come un dato di fatto, una componente del passato, eliminato dalla memoria ufficiale della città dopo la sua sostituzione con il nome Volgograd. Neanche nell’immaginario russo il nome di Stalin può suscitare bei ricordi, ma, giustamente, si fa sempre distinzione tra il nome di Stalin e la tragedia della città di Stalingrado massacrata dai nazisti, tra il regime staliniano e la saldezza dei cittadini di Stalingrado nel resistere al nemico fino all’ultima goccia di sangue per difendere la propria patria, la propria famiglia e la propria casa contribuendo in questo modo alla resistenza mondiale al nazifascismo. Esattamente come fecero i cittadini di Torino сhe nel periodo della Resistenza italiana diedero il loro meglio nella speranza di fare tornare la pace e la libertà.

Era questo il senso fondamentale del gemellaggio Torino – Volgograd: saper riconoscere e ricordare gli atti eroici dei nostri nonni e padri che durante la guerra più sanguinosa nella storia dell’umanità fecero enormi sacrifici per difendere la propria città, e contribuire ad eliminare il nazismo nel mondo intero. Se non ci fossero riusciti, il mondo di oggi sarebbe ben diverso. La vittoria di Stalingrado è una Vittoria con le lacrime agli occhi, ma è proprio quella che permise anche ai cittadini torinesi di sentire vivamente che la loro lotta e la loro Resistenza non erano inutili. I soldati sovietici ed i cittadini di Stalingrado non facevano la guerra per ideali astratti e per un paese astratto, combatterono fino all’ultimo per la loro città, per la libertà della loro famiglia e per la pace sulle loro strade. Perciò è inammissibile vedere nella storia di quella battaglia le tracce di Stalin e del suo regime: quella era la vittoria del popolo e giustamente come risulta dalla "Carta delle città gemellate" del 1957 "Il gemellaggio deve essere considerato come uno strumento di cultura fra i popoli senza caratterizzazione politica".

NATALIA SAMULEVIČ


NATALIA SAMULEVIČ, studentessa di San Pietroburgo, ha concluso nel dicembre 2008 presso l'Università degli Studi di Torino il suo Master in "Promozione e organizzazione turistico-culturale del territorio" con il punteggio di 110/110 con lode discutendo una tesi dal titolo "DALLA RISCOPERTA DEL GEMELLAGGIO ALLA RISCOPERTA DEL TERRITORIO. TORINO-VOLGOGRAD 1974-2008" scritta in collaborazione con alcuni soci dell’Associazione Russkij Mir di Torino presso la quale ha svolto uno stage di tirocinio.

di Antonello Rizzo

 

Introduzione

Le cose che più mi hanno colpito di Volgograd sono state la semplicità della struttura urbanistica e il calore dei suoi abitanti.

È impressionante notare come in città siano ancora presenti, in numero considerevole, cimeli e testimonianze del passato comunista e del terribile assedio che provocò più di un milione di vittime tra militari degli schieramenti opposti e civili. Inoltre, sono innumerevoli i nomi delle vie e delle aree cittadine in ricordo degli avvenimenti di Pietroburgo risalenti al 1917 che diedero il via all’era socialista sovietica: Viale Lenin, Piazza Lenin, Viale Ottobre Rosso, Quartiere Ottobre Rosso, Quartiere Kirov ecc

Tutti i russi che ho conosciuto si sono dimostrati simpatici e accoglienti, ansiosi di poter raccontare a un turista occidentale la storia della loro "città-eroica" e del coraggio dimostrato dai loro padri nel resistere all’attacco dell’esercito tedesco invasore. Più di una volta mi è stato chiesto da Volgogradesi un’impressione sulla loro città e sulle loro abitudini, dimostrando così un profondo attaccamento alla loro città e alle loro origini.

Mi ha impressionato molto il fatto che quasi tutti gli abitanti sapevano del gemellaggio tra il loro comune e quello di Torino, mentre qui da noi sembra che non ne siano a conoscenza nemmeno gli amministratori, per tacere della gente comune che in larga misura non sa neanche dell’esistenza della metropoli caucasica!

L’urbanistica e la struttura economica-sociale

Ci sono parecchie somiglianze tra Torino e Volgograd: entrambe si sviluppano come centri industriali e manifatturieri all’inizio del 1900.

A Volgograd, come a Torino, non si assiste ad un distacco traumatico tra centro e periferie, simile a quello di altre città dell’est.

Bisogna ricordare che la vecchia Stalingrado FU COMPLETAMENTE RASA AL SUOLO durante l’assedio del 1942-43 e venne successivamente ricostruita a partire già dalla fine del 1943: secondo il pensiero di Stalin avrebbe dovuto diventare la città simbolo del suo potere in modo da rendere visibile a tutto il mondo la gloria imperitura dell’Unione Sovietica e del suo popolo.

Proprio per questo lo stile architettonico, soprattutto nel centro città (la prima zona ad essere ricostruita, che sorge grosso modo nei luoghi-simbolo della battaglia), risulta ampolloso e imponente, sciovinista e monumentale allo stesso tempo. La prima cosa che salta all’occhio è rappresentata dagli enormi caseggiati (chiamati, appunto, "stalinskie") situati in misura maggiore nei mastodontici viale Lenin e Viale degli Eroi. Su ognuna di queste case, che erano appannaggio dei burocrati e della classe dirigente del regime, campeggiano di continuo lapidi commemorative e simboli sovietici. In tutto il centro sono presenti diverse statue di Lenin (quelle di Stalin sono state rimosse in epoca chruščeviana) e statue di martiri e eroi tanto cari al pantheon militare sovietico (due su tutti: Žukov e Zajcev).

Le strutture più caratteristiche della città sono senza dubbio il museo panoramico (che ospita al suo interno una straordinaria raccolta di cimeli risalenti all’assedio) e Mamaev Kurgan, il promontorio dove svetta il simbolo della città, la monumentale statua di donna che personifica la "Grande Madre Russia".

Le principali attività economiche si basano su industrie di costruzione navale, della raffinazione del petrolio, acciaio e alluminio produzione, la fabbricazione di macchinari e veicoli, e la produzione di prodotti chimici.

Un altro punto di forza del centro caucasico è rappresentato dal polo universitario, uno dei migliori dell’intera Federazione: è impressionante vedere, a tutte le ore del giorno e della notte, moltissimi studenti che passeggiano per le vie del centro cittadino; gran parte di questi ragazzi provengono anche da Paesi stranieri come l’india e da altre nazioni della CSI.

La città si sviluppa soprattutto in lunghezza (l’intero territorio urbano supera i 70 chilometri!) seguendo l’ansa nord del Volga, il principale fiume russo. Le periferie subirono un’espansione demografica-urbanistica imponente soprattutto negli anni ’70, con l’epoca brežneviana. In questo periodo venne portato avanti dal regime un imponente piano regolatore di costruzione di giganteschi grattacieli popolari (alcuni superano i 40 piani) che hanno consentito a una buona maggioranza della popolazione di vivere in alloggi piccoli ma riscaldati e più confortevoli rispetto a quelli precedenti.

Un'altra cosa che stupisce è il decoro delle strutture, almeno al loro esterno.

Ai margini della città, invece, sorgono ancora izbe fatte in gran parte di legno e materiali scadenti, abitate per lo più da immigrati e contadini provenienti dalle campagne circostanti.

I trasporti pubblici sono molto efficienti e puntuali e coprono l’intero superficie urbana.

La popolazione è formata per la maggior parte da russi autoctoni, ma anche da caucasici e da immigrati provenienti da ex repubbliche sovietiche come il Kazachstan e l’Uzbekistan.

Gli abitanti di Volgograd, oltre ad essere molto ospitali, sono anche molto orgogliosi della storia della loro città: mi è capitato diverse volte di essere fermato per strada da ragazzi e ragazze che, non appena hanno saputo della mia origine, hanno cominciato a raccontarmi delle gesta dei loro padri durante l’assedio. Nonostante tutto ciò che accadde durante l’assedio, durato dall’agosto 1942 al febbraio 1943, Volgograd è diventata una meta turistica per moltissimi tedeschi. Il tedesco, d’altra parte, è diventata la lingua straniera più parlata in città, assai più dell’inglese.

I monumenti e i musei

MUSEO PANORAMICO

Si trova nel centro cittadino, su Via Lenin: è il museo ufficiale dell’assedio. Racchiude al suo interno un vero e proprio "arsenale" composto da oltre 50.000 reperti, tra cui uniformi, armi, riviste e cimeli assortiti provenienti dai luoghi in cui si svolse la battaglia. Sono presenti moltissimi plastici che illustrano le fasi principali dell’assedio, evidenziando i luoghi simbolo della resistenza sovietica tra cui la fabbrica di trattori, la casa di Pavlov e il promontorio dove ora sorge Mamaev Kurgan. I reperti più interessanti sono rappresentati dal fucile del celebre cecchino sovietico Vasilij Zajcev, dal bastone da maresciallo di Čujkov, comandante delle truppe assediate, e dalla spada donata da Re Giorgio di Inghilterra alla cittŕ in ossequio del coraggio dimostrato. All’interno della cupola del museo č stata dipinta lungo le pareti una complessa raffigurazione degli aspri combattimenti sostenuti dai sovietici sia all’interno sia all’esterno del perimetro cittadino. Molte delle immagini sono struggenti e provocano un notevole pathos ai visitatori. All’esterno dell’edificio vi è un vero e proprio "parco-mezzi" perfettamente conservati, tra cui è presente il mitico carro sovietico T34, l’aereo caccia Šturmovik e il lanciarazzi "Katiuša". Ad un più attento esame della piazza adiacente al panoramico, si può notare oltre al busto marmoreo del celeberrimo Maresciallo Žukov, colui che spezzň l’assedio consentendo la vittoria sovietica, anche una targa commemorativa dello sbarco dell’altrettanto celebre 13° divisione delle guardie del generale Rodimcev, un’unità scelta che attraversò il Volga durante i concitati mesi dell’assedio per portare aiuto ai compagni assediati: questa mitica unità perse oltre l’80% dei suoi effettivi durante la battaglia, entrando per sempre nella leggenda.

A fianco del museo si trova ancora il mulino, l’unico edificio rimasto in piedi dai tempi dell’assedio!

LA CASA DI PAVLOV

Si tratta di un altro museo situato proprio nella piazza principale della città. Questo abitato divenne famoso perché venne tenuto per oltre 50 giorni, senza ricevere rifornimenti, da un pugno di soldati russi che combatterono aspramente tra le macerie e nelle cantine, impegnando i tedeschi in spaventosi e sanguinosi combattimenti corpo a corpo. Al suo interno, oltre a cimeli bellici, si trova anche un quadro che raffigura l’armistizio tra il comandante tedesco, feldmaresciallo Von Paulus, e il maresciallo sovietico Žukov.

MAMAEV KURGAN

Si tratta del luogo simbolo della città. Per poter arrivare alla statua della Grande Madre Russia, situata sul promontorio ove fu accanitissima la resistenza sovietica, bisogna percorre una scalinata lunga all’incirca 2 km: lungo i bordi del sentiero (costantemente in salita!) vi sono statue e murales raffiguranti i difensori di Stalingrado e le scene salienti della battaglia. Poco prima di arrivare alla statua si entra all’interno dell’imponente sacrario dei caduti: all’interno, oltre al risuonare di canzoni militari sovietiche provenienti da altoparlanti situati sul soffitto il visitatore, alzando gli occhi al cielo, può leggere ad uno ad uno i nomi dei militari russi morti negli scontri: migliaia di nomi assai inferiori al totale dei caduti, per lo più senza nome.

Ammetto di essermi commosso quando ho visto il fuoco sacro ardere all’interno del sacrario, dal momento che ho provato per un minuto un profondo senso di smarrimento ed angoscia: molti di quei soldati erano morti giovanissimi, sacrificando la loro vita per la loro terra e per le loro famiglie.

Al di fuori del sacrario si trova il monumento della madre che piange il figlio caduto, chiaramente ispirato alla pietà di Michelangelo. E , finalmente, sono giunto alla gigantesca statua della Madre Russia, alta più di 70 mt, che sovrasta il promontorio ed è visibile da ogni punto della città.

Tutt’intorno ci sono ancora le trincee scavate dalle truppe sovietiche durante l’assedio, che tendono a ricordare al turista l’asprezza degli scontri.

IL PLANETARIO

Altro sito interessante, si trova in fondo a "ULICA MIRA", nei pressi del centro cittadino; al suo interno sono conservati diversi reperti che ricordano le scoperte spaziali avvenute durante gli anni ’50-60, soprattutto durante l’epoca chruščeviana. Tra i reperti piů interessanti, oltre ad un imponente busto di Jurij Gagarin, il primo uomo capace di circumnavigare l’orbita terrestre, si trovano diversi modellini del satellite "sputnik" e pezzi di asteroidi. Nel museo inoltre è presente un altro curioso reperto, un mosaico raffigurante Iosif Stalin in divisa da maresciallo dell’URSS: quest’opera fu donato in segno di riconciliazione dalla DDR (Repubblica Democratica Tedesca) all’URSS verso la fine degli anni ’40.

MUSEO DI STORIA RUSSO

Situato nei pressi della stazione di Volgograd, custodisce al suo interno diversi reperti di arte russa, soprattutto del 1700-1800.

 

 

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